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GIUSTIZIA ED IMPRESA: CONSEGUENZE DI UNA VALUTAZIONE EX POST DI CONDOTTE IMPRENDITORIALI DECONTESTUALIZZATE

Quali siano i valori della nostra società, in un’epoca di nichilismo e decostruzionismo imperanti, mi è davvero difficile comprenderlo, e se davvero i valori sono dei semplici valutati, come tali destinati a mutare nel tempo, tale difficoltà risulta comprensibilmente ancora maggiore. Ma al di là della morale, esiste l’etica, una teoria ragionata del bene e del male per giungere all’essenza ultima del dovere.

Ne discende il doveroso primato dell’etica sulla morale, etica che segna anche il diritto, che altrimenti lascerebbe il campo all’arbitrio più assoluto. Ora, restando concentrati su quei valutati che caratterizzano attualmente la nostra società, peraltro caratterizzata anch’essa da estrema fluidità, qualcuno potrebbe essere portato ad immaginare che all’interno delle aule di Giustizia la funzione principale del diritto penale sia la ricostituzione di quella coscienza dei cittadini violata dalla condotta illecita altrui, in una sorta di finalità moralizzatrice del processo e della connessa funzione giurisdizionale, intesa come ius dicere. Si aprirebbe cosi lo scontro inevitabile tra l’etica processuale, come doverosa applicazione delle leggi vigenti, e la funzione moralizzatrice di un processo di tal fatta, destinato quest’ultimo a placare il sentimento del popolo, in un’ottica funzionale assolutamente preoccupante. Ma maggiore preoccupazione desterebbe o dovrebbe destare, ove presente nelle aule di Giustizia, un possibile istinto moralizzatore rivolto all’economia, spinto dalla ricerca di un rinnovamento catartico (palingenesi) che inducesse la Magistratura a punire con particolare severità reati poco avvertiti dai più, ma commessi nell’esercizio dell’impresa. Dico ciò perché chi ha un minimo di dimestichezza con le aule di Giustizia, avrà notato negli ultimi anni una particolare severità delle sentenze pronunciate in sede dibattimentale in relazione ad alcuni reati commessi dall’imprenditore nell’esercizio dell’attività d’impresa, con una singolare attenzione riposta dalla Magistratura alla fattispecie della bancarotta, nell’ipotesi semplice così come in quella “aggravata”. Nessuno disconosce la gravità delle condotte del “bancarottiere” né i danni che lo stesso produce al sistema economico, così come ai singoli creditori, ma la perplessità sorge dal fatto che nella maggior parte dei casi colui che è indicato come bancarottiere è anch’egli vittima ex post della condotta che gli viene contestata. Il tema merita un approfondimento chiarificatore. Nessuno può dubitare che l’esercizio dell’attività di impresa sia diventato negli ultimi anni assai complesso, stanti da un lato il numero sempre crescente delle norme (cosiddetta proliferazione normativa) con contestuale difficoltà di una loro certa interpretazione anche da parte di chi dovrebbe essere dotato di conoscenze tecniche (un esempio pratico, due identici ricorsi per Cassazione – identica fattispecie-, trattati dalla stessa Sezione a ventiquattro ore di distanza l’uno dall’altro, con limitata modifica del Collegio, con esiti totalmente differenti, pertanto un ricorso accolto e l’altro respinto) e, dall’altro, il susseguirsi di crisi economico-finanziarie di ordine sovranazionale che hanno imposto agli imprenditori, spesso ai vertici di imprese di medie o persino di piccole dimensioni, di assumere decisioni importanti e rapide nell’ottica della sopravvivenza dell’azienda, nel proprio interesse ma anche nell’interesse dei propri dipendenti, che spesso condividono con l’imprenditore il medesimo sentimento di affezione nei confronti dell’impresa. Per fare fronte a crisi sistemiche, ecco il rilascio di fideiussioni personali, iscrizioni ipotecarie di natura volontaria sulla propria casa di abitazione, il tutto al fine di trovare presso il sistema bancario la liquidità necessaria all’azienda per proseguire nella propria attività, ristrutturandosi. E’ pertanto pacifico che le decisioni vengano assunte dagli imprenditori rebus sic stantibus, nel contesto temporale in cui le stesse si rendono necessarie ed al cospetto della situazione finanziaria della società al momento della decisione, con l’effetto che quelle stesse decisioni analizzate dopo anni da terze persone, possano assumere contorni e significati assai diversi da quelli che erano loro propri, soprattutto se esaminate da persone che, per quanto tecnicamente preparate (nella materia giuridica), ignorano la vita reale di un’impresa, di cui ha contezza soltanto chi “vive” l’azienda. Si fa riferimento alla consuetudine di giudicare ex post, al fine di verificarne la legittimità, operazioni rientranti nella normale, fisiologica vita di un’impresa, al fine di accertarne a distanza di anni appunto, la illiceità o meno: è ovvio che una volta decontestualizzate nell’ottica di esprimere un giudizio ex post appunto, alcune decisioni imprenditoriali possano risultare tali da essere sussunte nella cornice delle norme chiamate a punire gravi reati come quello di bancarotta, ma mi chiedo se sia davvero eticamente (non dico moralmente) corretto procedere in questo senso, tenendo anche nella debita considerazione come nelle procedure concorsuali che vanno di pari passo con la predetta tipologia di reato (bancarotta), solitamente gli imprenditori subiscono l’escussione delle garanzie personali rilasciate (talvolta garanzie pluripersonali, marito e moglie) e l’esecuzione sulla casa di abitazione normalmente offerta a garanzia delle banche, con conseguenti grandi sacrifici di tutta la famiglia. Perché queste sono spesso le situazioni reali nascenti da una procedura concorsuale: un imprenditore dichiarato fallito, con quella sorta di “morte civile” che in Italia ne consegue, che ha assistito alla vendita all’asta della casa di abitazione, che ha visto escutere le fideiussioni rilasciate e che in sede penale subisce quale “bancarottiere” la condanna a pene di estrema severità. Sembra quasi che nelle aule giudiziarie talvolta ci si dimentichi della realtà in cui certe scelte imprenditoriali sono state fatte, delle crisi che specialmente dall’anno 2008, ma non soltanto, hanno caratterizzato, in maniera altalenante, l’intero sistema economico-finanziario, e di come sia presente una distonia oggettiva tra il “bancarottiere” e chi fa impresa in perfetta buona fede, ma incontrando oggettive difficoltà, esponendo ai rischi connessi alla propria attività i propri beni personali e quelli della propria famiglia. Atti di scissione giudicati distrattivi a distanza di sette, otto anni dall’operazione societaria, soltanto perché l’impresa è fallita, come tali potenzialmente costituenti ipotesi di bancarotta a carico dell’imprenditore che ha operato in perfetta buona fede, atti compiuti quando la società era in bonis e nessuno (nessuno!) avrebbe potuto immaginare che a distanza di qualche anno da detta operazione societaria, la società avrebbe subito un crollo economico finanziario per fatti oltretutto solitamente connessi all’andamento altalenante del mercato ed alle crisi del sistema, pertanto per cause per le quali l’imprenditore non può essere ritenuto responsabile (dobbiamo forse tornare a parlare di una responsabilità oggettiva dell’imprenditore?); prestiti bancari assolutamente proporzionati all’atto della loro concessione alla capacità finanziaria (anche “di rientro”)delle società a favore delle quali vengono erogati, e che, ove non restituiti, seppure per cause riconducibili soltanto alla crisi del sistema internazionale (a titolo esemplificativo, crollo improvviso del mercato immobiliare), comportano serie condanne in sede penale di coloro che rivestono ruoli apicali nell’ambito del soggetto erogante (prova ne è uno degli ultimi processi sui quali la Corte di Cassazione ha di recente posto la parola “fine”, svoltosi nei confronti di un noto uomo politico). Inoltre se anche la sentenza fosse di assoluzione, la funzione di pena sarebbe già stata svolta dal processo subito (processo come pena) come insegnava il giurista Canelutti. Oltretutto, il cittadino comune si chiede spesso perché un imprenditore serio, che ha agito in perfetta buona fede, sia condannato a cinque o sei anni di reclusione per una ipotesi di bancarotta connessa ad una procedura fallimentare che ha decretato la perdita di tutti i suoi beni e di quelli della propria famiglia, e nel contempo si percepisca una singolare indulgenza in relazione a reati che allarmano invece particolarmente l’opinione pubblica: il cittadino si chiede infatti a quale tipo di etica o più semplicemente a quale tipo di valutati corrisponda quel certo tipo di sentenza, particolarmente severa con l’imprenditore e particolarmente indulgente con chi, cosiddetto delinquente comune, si macchia di reati che destano maggiore allarme sociale, con l’effetto di una perdita di quel senso di sicurezza anche della legge e della sua applicazione che all’interno di uno Stato deve venire prima di tutto, come insegnavano i latini “sub lege libertas”, “glaudius legis custos”. Ed allora è lecito chiedersi e chiedere alla politica se sia arrivato il momento di una seria riflessione sul tema, prendendo atto della gravità della crisi sofferta dal nostro sistema imprenditoriale e bancario a partire dall’anno 2008, una crisi di dimensioni impensabili che ha lasciato “morti e feriti”, nei confronti dei quali dovrebbe essere forse indulgente, particolarmente indulgente lo sguardo di chi è chiamato a giudicare a posteriori scelte effettuate in perfetta buona fede in un momento in cui sarebbe stato impossibile immaginare ciò che, a distanza di anni, sarebbe accaduto, oltretutto per fattori esogeni all’impresa, pertanto estranei al normale operare dell’imprenditore. Ciò allontanerebbe la sensazione che talvolta il cittadino avverte, certamente auspico errata, di una giustizia moralizzatrice, riportando nelle aule quel senso di realismo e di umana compassione che risponderebbe anche ad un’etica del diritto.

Silvio pittori