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Cervelli all’ammasso e legislazione penale orwelliana

Come preconizzato da Orwell, stiamo giungendo ad una società nella quale le persone si autocensurano, non solo nei discorsi pubblici, ma persino nelle loro menti; Orwell chiamava questo fenomeno “stop-reato” ovverosia la capacità di arrestarsi, come per istinto, sulla soglia di qualsiasi “pensiero pericoloso”.


Per giungere a questa ultima fase bisogna, però, attraversarne una penultima, ossia la costruzione di fattispecie criminose che colpiscano direttamente ogni “Pensiero”; che dissente da quello dominante, ossia dal “Pensiero Unico-Grande Fratello”. Il diritto penale sostanziale, ancor prima di quello processuale penale, ha sempre costituito il braccio armato necessario a spazzar via tutte le idee dissonanti, disarmoniche e distoniche con l'”Idea”, quella unica, pura e autentica. Oggi non ci si sta inventando nulla: i reati “ideologici”, che amo definire orwelliani, sono solo la rivisitazione riveduta e corretta di quanto partorito dalle offuscate menti del “diritto libero” nazista.
Nella dottrina tedesca, attorno agli anni ’40, si delineò, accanto alla comune concezione di colpa, la c.d. colpa d’autore o colpa per il modo d’essere: Taterschuld e Tatertyp.
Tale concezione si basava sulla visione che vedeva nella punizione la sanzione non tanto per il fatto commesso, ma per il modo d’essere dell’agente, che rispondeva penalmente non per quello che aveva fatto ma per quello che era e pensava. Questa è l’essenza del “diritto libero” disegnato dalla “Croce Uncinata”: l’attenzione del legislatore è tutta rivolta alla psiche dell’uomo, alla sua mentalità, alla sua condizione sociale e, di conseguenza, ai motivi che lo hanno spinto a violare le regole comportamentali imposte dal Partito Unico-Stato all'”uomo nuovo”; ciò che deve essere punita è l’azione dettata da una intelligenza pericolosa per il modello umano e sociale congegnato dal regime.  Il modello penale nazionalsocialista è improntato proprio al “tipo normativo di autore”: il presupposto della colpevolezza di autore consiste nell’incasellare questi in una categoria di per sé criminale, in quanto avversa al Gheist del Popolo, inverato (ovviamente) nel Führer. Stesse parole possono essere spese per il codice penale dell’Unione Sovietica, redatto per contrastare, più che i comportamenti del reo, il suo abito mentale costituente esso stesso una minaccia per la rivoluzione socialista e per gli interessi della classe operaia delle Repubbliche sovietiche: la condotta non è altro che la cartina tornasole di una mente che turpemente si sottrae alla ideologia che informa la tirannide, che sia hitleriana o comunista.
Il diritto penale occidentale – in Italia anche sotto il regime fascista –,  in linea con la concezione classica europea dello Stato di diritto,  qualifica come criminoso  solo il “fatto”, ossia il comportamento commissivo o omissivo che lede o mette in pericolo un bene giuridico rinvenibile direttamente o indirettamente fra i valori, i diritti e le libertà costituzionalmente riconosciti, garantiti e tutelati: vita, integrità fisica, salute, libertà personale, sessuale, di coscienza, onore, dignità, riservatezza, capacità di lavoro, patrimonio e, in una dimensione sovra – individuale, salute collettiva, beni ambientali, paesaggistici, artistici ed  urbanistici.
Dopo un periodo che ha visto anche il tentativo referendario nel 1977 di abolire i reati d’opinione (quali, ad esempio, quelli di vilipendio), stiamo tornando ad uno stato giuridico ante 1945, in direzione di quei cupi ed orribili ordinamenti giuridici (o, meglio, non giuridici), lungo la traiettoria immaginata da quella mente visionaria di Orwell.
Che cosa vogliono significare le locuzioni omofobia, xenofobia, razzismo, islamofobia? Che cosa vogliono dire queste espressioni neologistiche? Chi ha il compito di versarne all’interno dei confini linguistici il corretto significato? Quale “esercizio dell’intelletto” configura un delitto? Quello che non ridonda in alcun atto di violenza, in alcuna condotta che rechi pregiudizio fisico o morale o psicologico a singoli individui, travalica lo stesso in qualche zona oscura repressiva? Nella “Terra di Mezzo” ove non sussiste alcun omicidio, né lesione, percossa, ingiuria, diffamazione, stalkeraggio, molestia, maltrattamento, come possono emergere i profili del razzismo, della xenofobia, dell’omofobia e della islamofobia?  Quale orizzonte possiedono questi neo-reati nel momento in cui non assumono alcuna fattezza di azione o omissione portata innanzi per “colpire” una o più specifiche persone in modo potenzialmente idoneo a violare un valore o un diritto protetto dalla Costituzione? Se si ama la propria Patria e la si preferisce ad altri Stati si concretano i delitti di razzismo e la xenofobia? Se si guarda con diffidenza molte “applicazioni” geografiche dell’Islam si ha a che fare con il reato di islamofobia? Se si afferma che i bambini devono avere una mamma e un papà e il matrimonio vero e proprio lo si concepisce fra un uomo e una donna, si realizza la fattispecie criminosa di omotransfobia? Questi vocaboli così in voga ai nostri giorni, tanto carichi di un penetrante sottobosco ideologico quanto poveri di polpa contenutistica identificata e identificabile, è come se si risolvessero in nuovi “peccati” laici le cui sembianze penalmente apprezzabili tendessero a imporre “il” pensiero a cui tutti hanno l’obbligo di adeguarsi.  
Se introduciamo in questo perimetro la mera esternazione di pensieri non graditi ad alcuni gruppi, ci accingiamo a tornare in sistemi para-normativi nazisti o comunisti: v’è una idea ufficiale che costituisce il paradigma e chiunque ne proponga una diversa deve essere sanzionato penalmente per essere, dopo o durante l’esecuzione della pena, rieducato (i laogai cinesi da Mao in poi ne sono un esempio di notevole cabotaggio).
Il reato è senza bene giuridico o offesa, perché il suo contenuto consiste nel pensiero, un pensiero considerato non in linea con quello dominante o che si vuole che diventi tale. La norma penale incriminatrice e, invero, la stessa minaccia di sanzione penale, svolge una micidiale funzione “educatrice”: “Laddove decidi di adeguarti alla neo-mente ed alla neo-lingua, non sarai tratto a processo, condannato, posto in stato di detenzione, oppure, destinatario di pene alternative, inclusa la ‘gogna mediatica’.”.
Orwell aveva anticipato i tempi, come detto nelle prime battute, presagendo uno Stato in cui le persone si autocensurano finanche nell’intimità delle loro menti: gli “psico-reati” occorrono per giungere a questa conclusione. Delitti non ascrivibili al modello penale liberale occidentale, bensì ad un ordito legislativo volto a reprimere il pensiero non più consentaneo al neo-umanesimo, del tutto privi non solo del bene giuridico leso ma della offesa stessa, mentre l’unico valore costituzionale minacciato è quello di esprimere liberamente il proprio pensiero ex art. 21 Cost, o di professare pubblicamente le proprie convinzioni religiose ex art. 19 Cost).
Sono reati a contenuto ectoplasmatico, con bene – interesse giuridico volatile, fluido (come il tipo di essere umano che si vuole forgiare), contenitori vuoti tutti da riempire. Reati già esistono nel sistema penale italiano per chiunque offenda o ferisca o uccida o bullizzi o stalkerizzi o molesti o maltratti un omosessuale, un musulmano, una persona di colore o appartenente ad una minoranza etnica. Cosa si ha in animo di perseguire ulteriormente con nuove disposizioni penali denominate omotransfobia (classificazione fra poco già vetusta), razzismo, xenofobia, islamofobia e altre fantasiose diciture che usciranno dal cilindro?
Reati orwelliani, appunto, completamente fuori dall’argine costituzionale e ordinamentale liberale degli Stati occidentali, profili criminali che sembrano sottendere la funzione di educare, rieducare ed indottrinare tutti coloro che non soggiacciono a nuovi archetipi affettivi, religiosi e areligiosi, sociali e comunitari.
Mi sia consentito tenermi stretto Calamandrei e le norme contenute negli artt. 19 e 21 della nostra Carta, specie in una epoca oicofobica –  come ci insegna il filosofo britannico Roger Scruton – che avverte l’esigenza di denigrare i propri costumi, la propria cultura e le proprie istituzioni.

Prof. Fabrizio Giulimondi