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Nazionalismo come male assoluto o come idea/valore da difendere?

Integrazione globale, governo globale, mondialismo, sovranazionalità, parole d’ordine del politicamente corretto, presupposti ritenuti da alcuni indifettibili di una visione morale del mondo, contro i quali si sarebbero di recente schierati il popolo inglese, con la legittima scelta della cosiddetta “brexit”, ed il presidente U.S.A., Donald John Trump, con la sua celebre affermazione “America First”, accusati di “nazionalismo” dai fautori appunto di un mondo fatto di ponti, termine “nazionalismo” utilizzato oramai in una accezione assolutamente negativa. Al contrario, sino alla seconda guerra mondiale parlare di autodeterminazione di un popolo e di indipendenza nazionale, nonché e di conseguenza d’identità nazionale di una comunità, era assolutamente comune, così come richiamare le tradizioni di un popolo, facenti parte della sua cultura, e la religione, quale insieme di sentimenti, credenze e riti legati al sacro caratterizzanti una comunità, tradizioni e religione intorno ai quali quest’ultima si stringeva.

Assurge alla ribalta negli ultimi decenni la convinzione che il nazionalismo sia il male assoluto, contro il quale si erge il bene assoluto rappresentato al contrario da un governo collettivo di una unione dei popoli, come sta avvenendo nell’ambito della Unione Europea, e da organismi sovranazionali sempre più estesi. Pertanto, da un lato una visione non soltanto politica di singole nazioni autodeterminate, originate dalla mutua fedeltà inizialmente tra famiglie e successivamente tra tribù che condividono una lingua, proprie tradizioni, propri valori, la religione, e, dall’altra, una visione politica ed economica (la famosa finanza mondialista), da molti definita “imperialista”,  che fonda il futuro del mondo su un progetto di organismi sovranazionali ai quali i singoli Stati dovrebbero demandare (neanche semplicemente delegare, una sorta di via senza ritorno) sempre più i propri poteri, esercitati nei secoli a favore dei popoli chiamati a governare e delle proprie comunità. Non sfugge a molti studiosi della materia il rischio che tale presunto bene assoluto nasconda i germogli di una forma di futuro (attuale?) totalitarismo, con contorni decisamente nuovi rispetto ai totalitarismi che abbiamo già conosciuto (per tutti comunismo e nazismo, ambedue condannati nel settembre 2019 dalla Comunità Europea), che si realizza in maniera subdola,  minando a poco a poco i principi chiave di una assetto democratico, cancellando la libertà, semplificando la lingua propria di ciascun Paese, imponendone una unica per tutti, alterando i tratti salienti della storia umana così da offrire una versione univoca ed acritica della stessa, cancellando la differenza sessuale sino al punto da eliminare il femminile ed il maschile, negando l’esistenza di razze, arrivando alla creazione di un individuo assolutamente artificiale, senza un cervello strutturato in assenza di una cultura di fondo e di un’istruzione classica, ed in presenza soltanto di generiche e rapide informazioni, individuo come tale non libero, privo di tutele (i “vecchi”  diritti sociali), assolutamente sostituibile con un altro, in una parola fragile: la realizzazione di quella dittatura esposta sotto forma di racconto da Orwell nella sua “Fattoria degli animali”, racconto che in tale chiave di profonda riflessione politica andrebbe riletto, come consigliato da Michel Onfray.  Questa nuova visione del mondo ha causato un nichilismo imperante (forse dovremmo dire che senza un relativismo imperante sarebbe stato arduo delineare questo nuovo assetto mondiale), un relativismo decostruzionista (definito anche pensiero postilluministico, pensiero debole et cetera), fondato sull’idea principale che non esistono fondamenti ai nostri valori e che non ci sarebbero prove idonee ad attestare che qualcosa vale più di qualcos’altro, con l’effetto di negare la possibilità di confrontare  culture e civiltà (banalizzando, uno vale uno, siamo tutti cittadini del mondo), relativismo che il futuro Papa Benedetto XVI aveva già stigmatizzato nel lontano 1996 come il problema più grande della nostra epoca . Un relativismo decostruzionista che oltre a minare i valori propri dei popoli, sta cancellando i principi e i valori tipici della civiltà giudaico-cristiana che ha formato o comunque concorso a formare la civiltà occidentale, con il richiamo di Papa Benedetto XVI alla impossibilità di creare una casa comune europea trascurando, dimenticando l’identità cristiana dei suoi popoli, come purtroppo accaduto nella realtà. Rinunciare ai valori religiosi unitamente alle virtù civili, tra le quali la consapevolezza di sacrificarsi per il bene comune, nel rispetto profondo dell’idea di Stato e di individuo, prefigurano la morte o quantomeno una inarrestabile decadenza di una civiltà.  In questa ottica mondialista, si certifica  l’esistenza di nuovi diritti dei singoli  (diversi però  dai diritti sociali che hanno caratterizzato l’ultimo secolo), talvolta a discapito dei più deboli, soggetti questi ultimi degni da sempre della massima tutela per la Chiesa cattolica, ma anche l’assenza di  obblighi, con la creazione di una società in cui in siffatta maniera è stato cancellato il senso della responsabilità individuale: la responsabilità deve sempre essere ricercata negli altri, nei genitori, nella società, nella scuola, senza alcun richiamo al profondo principio virtus ipsa praemium est, che dovrebbe essere insegnato ai giovani, quale baluardo contro il lassismo connesso al predetto nichilismo di massa. La situazione sopra descritta era stata ben delineata da Papa Benedetto XVI nel lontano 2007 : “…emerge chiaramente che non si può pensare di edificare un’autentica casa comune europea trascurando l’identità propria dei popoli  di questo nostro Continente. Si tratta infatti di una identità storica, culturale e morale…un’identità costituita da un insieme di valori universali, che il cristianesimo ha contribuito a forgiare, assumendo così un ruolo non soltanto storico, ma fondativo nei confronti dell’Europa. Tali valori, che costituiscono l’anima del Continente, devono restare nell’Europa del terzo millennio come fermento di civiltà. Se infatti essi dovessero venire meno, come potrebbe il vecchio Continente continuare a svolgere la funzione di lievito per il mondo intero?”. Dobbiamo quindi tornare ad una politica che sappia porsi a servizio dell’etica e dell’individuo, sottomettendo la finanza ed il capitalismo sfrenato che sono entrambe parte del nuovo assetto mondiale, donando di nuovo all’individuo quella centralità che lo stesso ha avuto e deve avere. Se questa è l’attuale situazione, sembra logico addivenire alla conclusione  che il cosiddetto nazionalismo e l’amore per l’identità nazionale di ciascun  popolo, non siano assolutamente il male assoluto: uno Stato nazionale avente come fine il benessere dei propri cittadini, eventualmente governato sotto forma federale, come accade negli Stati Uniti d’America, garantisce alla propria comunità la legittima determinazione del proprio futuro, in una pacifica convivenza con gli altri popoli e con le altre nazioni, accettando limitate cessioni della propria autorità ad organismi sovranazionali, senza che ciò si tramuti in forme di cessione della libertà di un popolo, della sua indipendenza con conseguente  perdita dei suoi valori fondanti, pertanto della sua identità nazionale. D’altronde, facilmente confutabile la tesi di chi tuttora afferma che proprio il nazionalismo sia stato e sia la causa delle peggiori guerre: chi può infatti negare che la Germania nazista sia stata una forma di Stato imperiale (l’auspicio del ritorno all’impero tedesco, all’impero austroungarico), che aveva come scopo proprio la cancellazione di ogni Stato nazionale e della cosiddetta autodeterminazione dei popoli.

Avv. Silvio Pittori