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Una prima chiacchierata sulla riforma costituzionale “Vescovi”.

 V’è una antica tradizione politica e giuridica che, sin dall’ ‘800, cerca di trasportare il regionalismo nella grande famiglia del federalismo. Il federalismo può nascere da esigenze dimensionali dei territori, che per la loro estensione non riescono ad essere governati interamente dal cento, come da accentuate differenziazione etnico-religiose delle genti che vi risiedono: nel nostro caso il federalismo è frutto della Storia che ha diversificato le vicende vissute dalle popolazioni italiane.

Le Regioni italiane con la riforma del sen. Vescovi si trasformano in veri e propri Stati, “componenti” di una Federazione che dà vita allo Stato federale, unione di Stati assegnataria della personalità giuridica internazionale, nella quale ai singoli Stati federati sono riconosciuti poteri esecutivi, legislativi e giudiziari, nei limiti previsti dalla Costituzione federale.

Con la nascita degli Stati Uniti d’America (1776, Dichiarazione di indipendenza; 1787, Costituzione federale) la forma dello Stato federale assume una connotazione compiuta, la cui vitalità è attestata dal sempre più frequente suo ripresentarsi sullo scenario ordinamentale mondiale (Canada, Germania, Svizzera, India, Australia, Brasile; il Belgio è uno Stato federale su base etnica: valloni, francofoni e fiamminghi di lingua olandese).

Le Costituzioni svolgono il compito di chiarire le competenze del governo federale e di quelli statali, regionali o provinciali, configurandosi così due o più livelli di governo, anche se quello “centrale” mantiene poteri unificanti. Il potere legislativo è esercitato da due Camere, di cui una è composta dai rappresentanti degli Stati, delle regioni o delle province.

La confederazione (cosa ben diversa dallo Stato federale), invece, è un’alleanza tra Stati in forza di trattati che perseguono scopi comuni di natura economica, commerciale, militare, monetaria, politica, mediante apposite istituzioni, pur mantenendo ciascuno piena indipendenza e sovranità. Il trattato istitutivo crea alcuni organi comuni e assegna loro diverse competenze. L’Unione europea è un tipico esempio di confederazione di Stati.

La confederazione di Stati può costituire lo stadio intermedio fra la forma dello Stato nazionale accentratore che non riconosce null’altro al di fuori di sé (a parte alcuni decentramenti amministrativi al suo interno) e la federazione di Stati, ossia lo Stato federale. l’Italia abbandona le vesti dello Stato unitario decentrato per coprirsi con i panni dello Stato federale volto verso un nuovo orizzonte, la “felicità dei cittadini”, introdotta nel novellato art. 3 facendo propria la “ricerca della felicità” inserita nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti del 4 marzo 1776, che, a sua volta, ha ripreso il pensiero del filosofo partenopeo Filangeri: dall’Italia è sorta, all’Italia è tornata.

Assistiamo, inoltre, al pieno riconoscimento della tutela e della protezione del lavoro in ogni sua dimensione e sfaccettatura, da quello subordinato pubblico e privato all’attività imprenditoriale in tutte le sue angolature. L’azione imprenditoriale posta in essere ogni giorno e in ogni parte d’Italia costituisce l’ossatura portante, insieme al lavoro dipendente pubblico e privato, dell’economia italiana. La lettura del nuovo art. 4 insieme a quella del rimodulato art. 41 (libertà di iniziativa economica privata) rafforza, finalmente, l’esercizio dell’attività di impresa, dopo che per decenni ha imperversato una cultura marxista apertamente o nascostamente avversa al “privato”; specie nel periodo che stiamo vivendo e che ci accingiamo a vivere, questo cambiamento in sede costituzionale può risultare particolarmente incisivo anche sul nostro PIL.

In seno all’Italia federale si rinvigoriscono le tutele degli idiomi in un florilegio linguistico così arricchente per ogni territorio, rimanendo, ovviamente, l’italiano l’unica lingua ufficiale che affascia vernacoli e dialetti di ogni lembo italiano: penso all’emiliano-romagnolo, al gallurese, al friulano, al ligure, al grecanico, al lombardo, al veneto, all’occitano e al siciliano. Proteggere le “parlate e i linguaggi” che punteggiano le Terre d’Italia vuole significare proteggere la storia, la cultura e le radici della intera Comunità italiana.

Prof. Fabrizio Giulimondi