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Referendum Costituzionale: poco o nulla è come ciò che appare se non il fatto che nulla potrà continuare come prima.

Tanto tuonò che alla fine piovve per davvero. Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 240 del 12 ottobre 2019, così come previsto dall’ art. 138 della Costituzione, iltesto della legge costituzionale“Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”,  viene sottoposto a referendumpopolare. Nelle intenzioni del processo di riforma il duplice obbiettivo di  favorire un miglioramento del processo decisionale delle Camere per renderle più capaci di rispondere alle esigenze dei cittadini e dall’altro di ridurre il costo della politica (con un risparmio stimato (dicono) di circa 500 milioni di euro per ciascuna legislatura.

Tanto per rammentare lo stato dell’ arte a beneficio di tutti, rammentiamo come tale meccanismo referendario, giusto il citato procedimento aggravato di cui all’ art. 138 della Costituzione, scatta nel momento in cui entro tre mesi dalla pubblicazione di una legge costituzionale, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Nel nostro caso la richiesta di referendum è stata proposta a firma di  71 senatori e depositata il 10 gennaio 2020, eritenuta conforme all’articolo 138della Costituzionedall’Ufficio centrale per il referendum dellaCorte di Cassazione.

La data prevista, precedentemente fissata al 29 marzo 2020, revocata  causa pandemia, è stata poi rideterminata con legge n. 59 /2020 che ha disposto l’applicazione del principio diconcentrazione delle scadenze elettorali, ossia il cosiddetto election-day, alle prossime date del 20 e 21 settembre avendo la Corte Costituzionale rigettato il ricorso more tempo presentato contro tale concentrazione,  proposto dal comitato dei proponenti. Alla luce di quanto sopra, in caso di vittoria del “si” il nuovo Parlamento sarà composto da  200 Senatori e 400 Deputati con un taglio di 115 senatori  e 230 deputati, facendo così scendere il numero complessivo dei  parlamentari da 945 a 600.

Una riduzione che, come da migliore tradizione, finisce con spaccare in due le diverse anime del Paese in una lotta, diciamocelo pure francamente,  è più ideologica che istituzionale e di sostanza in quanto, diciamolo con altrettanta franchezza, i risparmi sarebbero davvero risibili ed il problema della maggiore efficienza del procedimento legislativo niente affatto risolta.

Il che non significa che le ragioni del si non  possano trovare altrettanto fondamento come funzione di impulso verso una organica e direi oramai indispensabile  riforma della nostra obsoleta e dannosa Carta Costituzionale un po come lo sono le orami famose sentenze “manipolative di rigetto o di accoglimento” della Corte Costituzionale in sede di giudizio di costituzionalità delle leggi, laddove il Giudice costituzionale va oltre il giudizio e va a fungere da impulso al legislatore in determinate materie.

Del resto, la sera del 14 luglio 1789 Luigi XVI, Re di Francia, sul suo diario scriveva: “Oggi, niente di nuovo”.  Il risultato fu che da quel giorno nulla fu più uguale a prima e per la prima volta irrompeva sulla scena politica, senza mai più abbandonarla, una nuova classe di attori, i cittadini, che reclamarono il loro diritto di partecipazione al governo  frammentando per sempre la grande monade della sovranità ed introducendo quel principio della separazione dei poteri di cui quello legislativo che risiedeva nei Parlamenti sarebbe stato il vero cuore pulsante. E’ nel parlamento che il popolo prima, ed i cittadini poi, trovano la loro rappresentanza in un collegamento che si vorrebbe indissolubile tra rappresentanti e rappresentati nel processo di formazione delle leggi, e quindi delle regole di cui ogni ordinamento non potrà mai fare a meno.

Ma ciò che soprattutto comportò la vera e propria rivoluzione fu il superamento del carattere dualistico delle varie carte costituzionali che perdevano la loro caratteristica di accordo tra i poteri dopo che altro non erano state che mere concessioni da parte del Sovrano, legibus solutus,  il quale, così come le aveva rilasciate,  parimenti poteva ritirarle: Come Hobbes affermava il Sovrano mai avrebbe potuto essere sottomesso a quella legge che egli stesso aveva creato.

Con la funzione costituente, inevitabile approdo del fenomeno pluralistico sociale, le Carte Costituzionali assunsero allora  il loro carattere originario e non derivato a cui tutti gli altri poteri  dovevano essere sottoposti nel rispetto di quello che doveva divenire per sempre l’ essenziale primato della legge formatasi nel Parlamento quale unico organo rappresentativo dello Stato Comunità. E se rivoluzione è stata mai tradita è stata proprio quella di rompere questo cordone ombelicale tra eletti ed elettori, laddove pessime riforme elettorali abbiano potuto permettere e rendere  possibili governi distanti anni luce dai loro elettori e messi in piedi solo da espliciti accordi di palazzo in completo disprezzo della volontà della maggioranza del Paese come sta accadendo in quest’ ultimo periodo, con la conseguenza, e nessuno se ne stupisca, di cadere in una delle più grandi tragedie ed idiosincrasie che possano mai affliggere un popolo: l’ antipolitica che è la vera e propria madre della legge costituzionale ora sottoposta a referendum.

Ma è un rifiuto della casta che diviene come quel marito che pur di far dispetto alla propria coniuge optò per tagliarsi i relativi attributi. Rinunciare alla politica è infatti il peggior modo per far si che tutto resti inevitabilmente come è in un giro che oltre che vizioso è estremamente pessimo. Giuseppe Tomasi di Lampedusa avrebbe parafrasato di fare in modo che tutto cambi per non cambiare nulla.

Ciò non toglie che in questo contesto la chiamata alle urne  si carichi di motivazioni forti che pur spaccando l’ Italia tra le ragioni del si e le ragioni del no, fanno propendere per la necessità di dare davvero quel primo scossone al Palazzo e quindi di raggiungere un risultato che prescinde dai contenuti della riforma.  

Cambia tre abitudini all’anno e otterrai risultati fenomenali, e, come disse Denis Waitley, due sono le scelte possibili nella vita: accettare le condizioni in cui viviamo o assumersi la responsabilità di cambiarle. E che ci sia necessità di cambiarle credo nessuno possa dubitare.

Nell’ ambito dei lavori della costituente e ragionando sulla estrema frammentazione della nostra società e sul sistema multipartitico italiano in una celebre relazione del Mortati del 46 venne escluso allora sia il sistema presidenziale che assembleare optando per un modello parlamentare che meglio avrebbe permesso di assorbire le profonde divisioni e contrasti dell’ epoca. Ciò non tolse che se il Parlamento veniva posto al centro del modello costituzionale, nelle norme riferite al Governo non possono non notarsi le poche norme di dettaglio e le tante, troppe ambiguità come la scelta per il bicameralismo perfetto che si è allineato su queste laddove istituzionalmente detto modello avrebbe dovuto prevedere la cura di interessi diversi distinguendo le due camere sotto il profilo della loro composizione, della loro durata e delle loro competenze.

Le conseguenze delle non scelte effettuate furono invece per un bicameralismo perfetto senza alcuna sua ragion d’ essere attese le pressoché nulle differenze tra una camera ed un’altra se non l’ insaturazione di un farraginoso ed inutile appesantimento dei procedimenti di produzione legislativa.

Ergo non è il numero dei parlamentari ad essere di troppo bensì ad essere di troppo è uno dei due rami del Parlamento così com’ è ad oggi,  a meno che  uno di essi per composizione e funzioni non venisse de jure condendo a rappresentare  interessi realmente diversi come magari potrebbero esserlo i responsabili elettivi e rappresentativi degli stati federali assorbendo quelle che sono ora le funzioni delle Conferenze Stato Regioni,  Stato autonomie o conferenza unificata. 

Ma, e soprattutto lo sarebbe nella misura in cui attraverso il presidenzialismo ed una riforma elettorale adeguata venisse a recuperarsi quello che in Italia è sempre mancato: la governabilità a scapito dell’ immobilismo e consociativismo padre dei peggiori “vizi di palazzo” come assistiamo oggi laddove l’ interesse di pochi si sta sovrapponendo all’ interesse di tutti.

Ritengo quindi davvero sterile e quasi da bar dello sport tutte le varie discettazioni fatte da improvvisati costituzionalisti che senza aver mai letto anche un solo rigo della Costituzione italiana parlano di istituzioni, così come con pari saccenza parlano, e con quale convinzione, di formazioni e moduli di gioco in un’ Italia in cui tutti si sentono ottimi allenatori. Un Italia in cui a parlare sono in molti e a conoscere, anche e soprattutto tra gli addetti ai lavori, sono assai pochi. Come ebbe invece  a dire Fellini se si facesse invece un poco più di silenzio forse qualcuno riuscirebbe a capire. La riduzione del numero dei parlamentari è un obiettivo condivisibile, ma per onestà intellettuale andrebbe anche detto, che questo avrebbe un senso in una riforma più articolata del nostro assetto istituzionale.

Premesso che alla prova dei fatti la riduzione dei parlamentari di per se  non porta benefici sostanziali (i risparmi saranno meno di 60 milioni all’anno secondo l’Osservatorio dei Conti Pubblici) rimane che in assenza di adeguamenti questo creerà fortissime distorsioni soprattutto al Senato.

Alla luce della riforma infatti essendo l’elezione del Senato fatta su base regionale, la soglia implicita al di sotto della quale un partito non ottiene eletti nella quota proporzionale, si innalzerà ancor di più ed in taluni casi addirittura sopra il 20%. Poco male per il vero, ma se si vuole il maggioritario bisogna avere il coraggio di adottarlo esplicitamente, e non in una sola camera mentre, altra discrasia sarà la dimensione dei collegi  che  avranno per il Senato una dimensione media superiore agli 800.000 elettori, mentre alla Camera di oltre 400.000: ne deriverà un ulteriore distacco tra parlamentari e territorio e gli eletti si concentreranno nelle zone a più alta densità di popolazione, favorendo chi proviene dalle grandi città.  

La riduzione dei parlamentari poi, non sarà proporzionale tra le regioni: alcune (Umbria, Basilicata) perderanno quasi il 60% dei seggi, a fronte di una media pari al 36,5%. In Trentino Alto Adige, per contro, la riduzione sarà solo del 14,3%.  Un altro effetto distorsivo è quello relativo al peso dei delegati delle Regioni nell’elezione del Presidente della Repubblica, che, restandone invariato il numero, passerà senza ragione alcuna, dall’attuale 5,7% all’8,8%. Infine, il taglio dei parlamentari, che sembra lineare, sarà invece molto penalizzante al Senato, perché il funzionamento dei lavori dovrà essere stravolto. A fronte delle  14 commissioni, a meno di doppi incarichi sarà difficilissimo organizzare le commissioni, visto la mancanza del dono dell’ ubiquità. E la proporzionalità tra gruppi in aula e commissione, apparirà di difficile realizzazione pratica a meno di una modifica dei regolamenti parlamentari.  

Ciò non toglie tuttavia che più che per il risparmio economico in sé ed una irrealizzabile maggiore efficienza, questa riforma abbia invece un importante valore simbolico: non tanto quello di eliminare gli eccessi e i malfunzionamenti delle Istituzioni, spesso appesantite da lunghi iter burocratici e spese superflue, quanto piuttosto nel principio che è proprio l’ architettura istituzionale ad essere obsoleta e necessitante di una profonda riforma costituzionale in senso presidenziale e quindi con l’ elezione diretta del Premier in primis oltre poi tutto il resto che ha fatto dell’ Italia un eterna incompiuta. 

La democrazia non si misura certo dal numero dei parlamentari, quanto dal loro effettivo collegamento col Paese e dall’esistenza, al di là del Parlamento e dei suoi problemi, di una rete di democrazia partecipata che passa attraverso il territorio e le organizzazioni sociali.

I promotori del no al referendum come del “no” come suo risultato finale dimostrano ancora una volta il loro attaccamento a mantenere lo “status quo”, non accorgendosi di allontanarsi sempre più dal Paese reale al quale viene di fatto impedito di  scegliersi i propri rappresentanti con una conseguenza diretta: Camera e Senato, trasformate in un assembramento di nominati.

Quella per il quale ci si va ad esprimere non è e non può essere quindi la migliore riforma possibile, ma è sicuramente l’ unica al momento alla portata di mano per dare un segnale inequivocabile. Ma non potrà essere un punto di arrivo quanto piuttosto una ripartenza per poter fondare una richiesta condivisa di riformare una Costituzione, la migliore possibile all’ epoca dell’ indomani del termine della  seconda guerra mondiale con un Paese distrutto e profondamente diviso, ma che ad oggi nulla ha più a che condividere con quella che sarebbe la Costituzione sostanziale o materiale che dir si voglia.

In una parola, per dirla alla Clive Staples Lewis, non si può certo tornare indietro e cambiare l’ inizio, ma si può sempre iniziare da dove siamo e cambiare il finale.

Mauro Mancini Proietti