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L’effetto annuncio: facciamo chiarezza sui dati reali del Recovery Fund.

Charles Maurice de Talleyrand Périgord in una delle sue celebri corrispondenze con il Re Luigi XVI ed ai suoi famigerati Stati Generali,  rammentava al suo monarca poco illuminato che “ in politica con le baionette ci si può fare tutto tranne sederci sopra”: come dire “Il dispotismo arbitrario e violento è sempre una conseguenza dell’illegittimità”.

Non fu granché preso in considerazione e, causa la mannaia, sappiamo come andò a finire. Ma del resto sappiamo pure come nella Francia dell’ epoca sia il Talleyrand come lo stesso Fouchè ben potevano essere definiti il “vizio appoggiato al braccio del crimine”.

Ed il vizio è sempre lo stesso: l’ effetto annuncio che a fronte di un dato certo, ossia l’ astratta possibilità dell’ arrivo tra il 2021 ed il 2023 di circa  209 miliardi di euro tratti dal capitolo  Recovery Fund,  si omette di dire di cosa stiamo parlando e di cosa si tratta in realtà sia nel loro “an”, (il se), sia nel loro “quid” (il loro contenuto) e, non da meno, nel loro  “quomodo” (il quando, in che forma e sulla base di quali elementi accidentali) o, se vogliamo essere pratici, diremmo nel loro “modus”.

Una premessa doverosa:  il fatto di essere riusciti a tenere la barra dritta sullo strumento economico dei Recovery fund (grazie al non trascurabile appoggio di Francia e Germania forse per la prima volta cointeressati e quindi nostri alleati), è un merito che va sicuramente riconosciuto. Ma detta “vittoria” ricorda troppo i trattati di Versailles all’ indomani delle trattative dopo la grande guerra in cui l’ Italia pensava di sedersi dalla parte dei vincitori, ma che dovette alla fine realizzare  che si trattava di una “vittoria mutilata”.

Pur in assenza di elementi di dettaglio, è intanto bene chiarire che il reale finanziamento a fondo perduto è in realtà nella misura di 82 miliardi e non di 209 miliardi in quanto i restanti 127 miliardi hanno la natura giuridica di normali obbligazioni di prestito seppure ad un tasso vantaggioso ma che vanno restituiti contestualmente al versamento delle quote annue dovute dall’ Italia all’ Unione Europea.  Ma anche qui in fondo nulla di male.

Siamo come gli altri Paesi uno Stato sociale frutto del pluralismo e non più uno Stato liberale. Lo Stato in altri termini non è più il “guardiano notturno” o lo “Stato di polizia” di matrice  ottocentesca, ma attraverso il bilancio deve oggi garantire ai cittadini una serie di servizi pubblici per rimuovere le cosiddette disuguaglianze, non a caso definiti per antonomasia “servizi pubblici  finanziariamente protetti”.  Servizi per il cui finanziamento non vi sono che due modi: o attraverso le entrate dirette o indirette che derivano o dalla tassazione (sul reddito, anche da lavoro, o sul patrimonio), ovvero attraverso l’ emissione di strumenti finanziari di debito, e quindi servizi finanziati in deficit di bilancio: tertium non datur.

E finanziare la spesa pubblica in deficit è ovviamente il metodo politicamente meno costoso ove per dirla con Buchanan può apparire che tutti guadagnino e nessuno perda, giusta la consapevolezza che anche la politica, come ricorda Schumpeter,  ha il suo mercato concorrenziale che tende a far sopravvivere gli uomini politici che ottengono più voti. Cogliere i benefici oggi per rinviare i costi alle generazioni future ha una sua logica pur nella consapevolezza che nel lungo periodo questo sarà dannoso. Non è un caso che lo stesso famigerato pareggio di bilancio inserito nel 2012 nel novellato art. 81 della Costituzione, è in fondo un modo per proteggere la politica da se stessa: Ulisse non vuole rinunciare ad ascoltare il canto delle sirene, ma è consapevole di non avere la forza per resistervi, così che ha la saggezza di farsi legare.

Chiarito tuttavia questo aspetto va anche chiarito come forse noto a tutti  che detti finanziamenti non sono nell’ immediato ( ossia ora che ne abbiamo dannatamente bisogno per aiutare ora famiglie ed imprese visto il cronico credit crunch),  ma saranno elargiti tra il 2021 e il 2023 nella misura del 70% nel primo biennio (146 miliardi che non si comprende quanto di sussidio e quanto di prestito) e il restante 30% entro la fine del 2023 (63 miliardi). Previsto pure un prefinanziamento di 20,9 miliardi di euro, ma sempre non prima di giugno 2021, del 10% e comunque vincolati nello scopo al solo finanziamento di quelle spese più direttamente collegate alla pandemia da coronavirus. 

Nella prima parte il denaro verrà erogato sulla base di calcolo in relazione al tasso di disoccupazione riferita al periodo 2015-2019, mentre nella seconda parte, per  il 2023 l’assegnazione avverrà sulla base della perdita di Pil reale nel periodo 2020-2021.

Se questi sono i contenuti su cui non si comprende bene realisticamente se dover esultare o meno, possiamo soltanto dire, a beneficio della seconda ipotesi, che andrebbero fatte due considerazioni minime di cui sarebbe onesto parlarne mediaticamente con altrettanta chiarezza.

Il primo aspetto riguarda il fatto che in realtà il “braccio di ferro” portato avanti dall’ asse Germania Francia Italia nei confronti dei cosiddetti paesi nordici o “frugali” (assai restii a regalare alcunché a nessuno), si è concluso e ha portato a casa un ipotetico risultato soltanto allorchè ai medesimi Paesi sia stata assicurata una corrispondente decurtazione delle prossime somme annuali da loro dovute a  titolo di partecipazione all’ Unione Europea con conseguente impoverimento del relativo bilancio nei prossimi anni e quindi ancora con corrispondente impoverimento delle varie politiche comunitarie i cui fondi strutturali (di cui anche l’ Italia beneficiava, vedasi ad esempio il sostegno all’ agricoltura), verranno notevolmente impoveriti.

Ciò comporta, è bene dirlo con altrettanta chiarezza,  che a fronte della nostra cospicua quota annuale di partecipazione arricchita dalla quota di interessi sui prestiti, vi sarà una corrispondente diminuzione dei relativi “aiuti e sussidi” di ritorno.

Ma non solo, continuo a sostenere una certa “astrattezza” dell’ effettivo finanziamento in quanto l’ Italia, come gli altri Paesi, deve predisporrete un apposito piano triennale “Recovery Plan nazionale” (2021-2023) da presentarsi a Bruxelles in autunno secondo il consueto “ciclo economico europeo”,  il quale anche se giudicato idoneo, dovrà poi necessariamente essere riesaminato e adattato, ove necessario, nel 2022 per tenere conto della ripartizione definitiva dei fondi per il 2023. Per inciso il piano dovrà essere in linea con le raccomandazioni della Commissione, la quale lo valuterà entro due mesi dalla presentazione (quindi novembre-dicembre) ed il relativo punteggio dovrà ottenersi sulla base dei criteri della coerenza del piano stesso con le raccomandazioni specifiche date Paese per Paese e che per quanto riguarda l’Italia riguardano un riforma strutturale della giustizia, del fisco e del lavoro (leggasi pensioni), così come anche l’effettivo contributo alla transizione verde e digitale. Che dire …..un gioco da ragazzi.

E’ così che detto piano sicuramente carente (figuriamoci affrontare oggi le riforme strutturali richieste), su proposta della Commissione, dovrà essere trasmesso al Consiglio dei Ministri economici  (il cosiddetto Ecofin per intendersi) che dovrebbero approvarlo a maggioranza qualificata.

Non appare allora chiaro se l’ aver ottenuto la rinuncia del voto all’unanimità per le delibere del Consiglio dei Ministri a beneficio del non meno famigerato voto per maggioranza qualificata (due terzi?) sia stato poi un buon affare visto che basterà il voto di pochi Paesi potrà bloccare tutto. E  non sarà certo difficile far rilevare dai Paesi interessati come vi siano  “gravi scostamenti dal soddisfacente conseguimento dei pertinenti target intermedi e finali” e chiedere quindi di portare la questione al Consiglio europeo con buona pace delle odierne dichiarazioni di vittoria.

“E’ una resa mani e piedi senza condizioni” o anche “tagli a cambio zero: con cui si torna a casa con meno sussidi e più condizionalità”  è stato detto….e credo non siano lontani dal vero visto che i Paesi nordici ottengono il ridimensionamento del Recovery Fund e  mantengono, anzi incrementano,  privilegi inaccettabili e anacronistici mentre per il nostro Paese è vero che conserva un livello accettabile di sussidi a fondo perduto, ma in compenso rischia  di perdere come detto sopra, molti miliardi su altre voci del bilancio pluriennale e che per spenderli ci sarà da passare tra le  forche caudine della troika; non si chiama ‘diritto di veto’ ma il ‘super freno di emergenza’ …cambiano i termini ma il senso delle cose è lo stesso.

Di qui il rischio di un inaccettabile commissariamento delle scelte di politica economica alla faccia di una pretesa “sovranità” che, ricordano i costituzionalisti,  unitamente al “territorio” e al “popolo” dovrebbe essere tra i presupposti cardine per l’ esistenza stessa dello Stato.

Dispiace dirlo, ma negare questo rammenta troppo la manzoniana memoria dei famosi tre capponi che litigavano tra di loro mentre venivano recapitati per essere passati in padella da un timido Renzo al famigerato azzecca garbugli di turno.  La storia di Renzo e Lucia ed il loro matrimonio  finì (forse) bene per loro, ma di sicuro i capponi fecero una brutta fine.

Mauro Mancini Proietti

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