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“Maximo” assembramento al centro commerciale. Ma l’emergenza sanitaria non si è spenta

Vi ricordate le file di qualche giorno fa per accaparrarsi un paio di scarpe da ginnastica Lidl? Ecco. Tra le battute di facile ironia per il gusto discutibile e l’osservazione, giusta e intelligente, sul fatto che predichiamo tanto bene, invitando gli altri a comprare sotto casa, dal piccolo artigiano e rigorosamente made in Italy, ma poi razzoliamo malissimo rivolgendoci a brand internazionali con store in tutto il mondo, quello che salta all’occhio è sicuramente il serpentone umano di gente in attesa dell’apertura dei cancelli per l’inaugurazione del “Maximo”, nuovo centro commerciale della Capitale, sulla Laurentina (zona sud di Roma).

Stando ai numeri che il direttore del neonato shopping center ha fornito, il primo giorno di apertura ha fruttato ben trentamila visitatori. Bene. Un segnale incoraggiante in tempi in cui le saracinesche di negozi e piccole botteghe non fanno altro che chiudere e piccoli imprenditori segnano conti in rosso per le loro attività. Peccato però che non stiamo vivendo una situazione di assoluta normalità, ma di emergenza sanitaria. Con interi settori messi letteralmente in ginocchio, pressati da norme e divieti che impongono loro misure rigidissime se non addirittura la chiusura. E con milioni di italiani costretti a stare all’interno delle mura domestiche e a vivere uno stato perenne di incertezza sul loro futuro lavorativo ma soprattutto sociale. Perché, qui il problema non è capire se all’interno del centro commerciale sono state rispettate, come ha tenuto subito a precisare il direttore della struttura, tutte le misure anti-covid (primo fra tutti il divieto di assembramento). Qui il vero problema è che qualcuno ha permesso al Maximo di poter fare una inaugurazione, nel totale rispetto della legge (ci mancherebbe), infischiandosene del rischio altissimo in un contesto in cui la pandemia è ancora una realtà e il virus corre nel nostro Paese. Nonostante i segnali incoraggianti di miglioramento e un RT (indice di contagio) soprattutto nel Lazio sia sotto l’1. Il punto è che il rischio assembramento era prevedibile. Con milioni di persone e di studenti “disoccupati” – tra scuole chiuse e lavoro forzato da casa – un evento del genere non può che far gola a molti. Se poi sei il terzo centro commerciale più grande della Capitale e all’interno ospiti il primo store nel Lazio di Primark (noto brand irlandese di abbigliamento a basso costo), allora ecco che il boom di visite è assicurato. Ed è andata proprio così.

Per non parlare del fatto che la scelta del giorno è già di per sé molto discutibile. Perché tutto questo si è verificato nel pieno del venerdì di Black Friday, Una giornata che per il nostro Paese potrebbe voler dire poco. Ma in realtà per la maggior parte degli italiani che ha ormai interiorizzato feste e tradizioni americane, si tratta di un momento in cui poter acquistare tantissimi prodotti a prezzi scontatissimi.

Dunque, ricapitolando. Inaugurazione di un centro commerciale, in piena pandemia, con il primo store nel Lazio di un marchio famosissimo di abbigliamento, nel giorno del Black Friday. Si poteva evitare tutto ciò? Si poteva evitare di avere code e maxi assembramenti all’interno dei locali? E’ bene dirselo. Nessuno mette in dubbio il fatto che non siano stati rispettati i protocolli sanitari. E’ stato sicuramente così. Ma siamo sicuri che, con tutta la buona volontà del mondo, gli addetti alla sicurezza erano pronti a scongiurare gruppi di gente accalcata in attesa di varcare i cancelli o all’interno di un singolo negozio? I dubbi sono tanti, le incognite anche. Ma l’unica vera domanda, qui, dovrebbe essere rivolta a chi ha permesso un’inaugurazione del genere. Forse poteva essere evitata, spostata magari di qualche mese. Giusto per aspettare che il Governo allentasse le attuali misure restrittive dopo il periodo festivo. Anche perché, parliamoci chiaro. Il Natale è a rischio per molte famiglie, soprattutto per chi avrà difficoltà a rientrare a casa. E alla luce di un evento del genere, sapere di non poter tornare dalla propria famiglia perché gli spostamenti tra regioni (anche se gialle) non sono consentiti, non sarà facile da digerire. Nè, tantomeno, giustificabile.

Irma Annaloro