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Se a perdere sono anche i brand più conosciuti, è il momento di ripensare il mondo del lavoro

Qualche tempo fa due quotidiani nazionali pubblicarono una notizia dai contorni preoccupanti: in via Frattina chiusi venti negozi. Sì, avete capito bene. Via Frattina. Roma, siamo nel pieno centro della capitale. Una delle vie più gettonate per gli amanti dello shopping. Luogo di passaggio per turisti e non solo. Perché via Frattina, oltre ad incarnare quel concetto diffuso di vetrina-moda con le sue boutique di lusso, rappresenta proprio una strada di collegamento tra piazza di Spagna e via del Corso. Eppure, a quanto pare, la crisi causata dalla pandemia non ha risparmiato nessuno. Nemmeno i commercianti di questo piccolo angolo di paradiso che si sono ritrovati ad abbassare anche le loro saracinesche, mettendo in cassa integrazione i loro dipendenti.

E così, tra attività commerciali che chiudono, turisti che mancano e lavoratori che perdono la loro occupazione, il nostro Paese continua a sprofondare verso il baratro. Senza sapere se e quando rialzeremo la china. Certo è che se dopo la prima ondata che ha messo in ginocchio tantissimi imprenditori italiani adesso ci rimettono anche brand e marchi tra i più conosciuti nel mondo, questo deve farci riflettere sul fatto che sarà sempre più difficile, con il passare del tempo, rivedere piccoli scorci di normalità.

Anche perché, oggi la “normalità” ha lasciato il posto alla desertificazione delle nostre città. Con saracinesche abbassate in ogni angolo e annunci tutti uguali: affittasi. E la situazione non cambia se dalle vie del centro ci si sposta per raggiungere altre zone della capitale. Provate a percorrere via Cola di Rienzo o anche via Ottaviano. Vi troverete soltanto a fare i conti con un senso di desolazione al sol pensiero di dover assistere a vetrine spoglie e buie, senza manichini, senza luci, senza quel via vai naturale di gente che entra e che esce, senza quei sorrisi delle commesse in attesa di accogliere i loro clienti. Senza lavoro.

Perché è di un’Italia senza lavoro quell’immagine infelice a cui ci stiamo abituando ogni giorno, senza sapere come uscire da questo tunnel che ci impedisce di vedere la luce. E non lo diciamo noi. Lo dicono i numeri. Stando alle rilevazioni Istat pubblicate a giugno, in quattro mesi, quindi dal periodo pre-covid, il tasso di occupazione ha perso un punto e mezzo. Da febbraio, sono circa 600mila i posti di lavoro persi, mentre sono diminuite le persone in cerca di una occupazione. Secondo l’istituto di statistica, la diminuzione di posti di lavoro riguarda di più le donne, con una perdita di 86mila unità, e i dipendenti permanenti, ovvero quelli del “posto fisso”, che si riducono di 60mila unità.

Insomma, l’economia italiana fatica a reggere di fronte a chiusure di attività commerciali e ammortizzatori sociali che non sempre si rivelano sufficienti. E i numeri sono destinati a salire. Ma solo quelli che riguardano il tasso di disoccupazione. Perché l’Ocse fa sapere che entro la fine del 2020 i posti di lavoro persi potrebbero arrivare fino a 1,48 milioni. Certificando come l’Italia sia tra i Paesi più colpiti dalla pandemia, con le ore medie di lavoro in calo del 28%, più degli Usa che pure hanno perso milioni di posti.

Forse è arrivato il momento di ripensare il mondo del lavoro e di prevedere aiuti economici più consistenti nei confronti dei lavoratori e degli imprenditori che non riescono più ad andare avanti. Il divieto di licenziamento non basta. Perché quella che inizialmente è stata vista come una delle risposte iniziali alla crisi del Covid-19 si rivelerà assolutamente inefficace e inefficiente. Così come il reddito di emergenza non ha funzionato bene e quella cassa integrazione che avrebbe dovuto garantire un sostegno alle attività economiche in forte crisi ha evidenziato tutti i problemi legati all’inadeguatezza dello strumento e al forte ritardo con cui questi aiuti sono entrati nelle case degli italiani. Tutto questo va ripensato. Se non vogliamo continuare a passeggiare tra vetrine buie e saracinesche abbassate.

Irma Annaloro